RICCARDO PITTIS E IL VALORE DEL CAMBIAMENTO

Riccardo Pittis, milanese classe ’68, è il cestista più vincente della storia italiana dopo il leggendario Dino Meneghin.

Attualmente è formatore aziendale e Mental Coach e insegna ai manager l’arte del reinventarsi, capacità che Pittis ha dovuto giocoforza coltivare alla soglia dei 30 anni, quando fu costretto causa un problema ai tendini ad imparare a tirare con il mancino, ottenendo risultati a dir poco straordinari.

Con Maurizia Cacciatori ed altri 4 campioni dello sport fa parte del progetto formativo “a Caccia di… soft skills”.

Riccardo PittisPer 7 lunghi ha infiammato tra palleggi, rimbalzi e bombe, il pubblico del capoluogo lombardo. Nel 1993, dopo 4 scudetti, 2 Coppe dei Campioni e un’Intercontinentale, Pittis è approdato alla Benetton Treviso, con cui ha vinto ancora tanto e con la quale ha chiuso la carriera nel 2004.

Nella sua carriera ha raggiunto due record particolari: giocare ininterrottamente per 20 anni senza mai saltare un incontro (segno di una tenacia senza eguali) e una grande propensione all’adattamento (frutto di un atteggiamento mentale molto aperto). Queste e molte altre doti, oggi le mette a disposizione per aiutare al meglio professionisti delle più importanti realtà aziendali italiane e multinazionali.

 

Riccardo Pittis, una carriera da professionista divisa tra Milano e Treviso. Due piazze a cui hai dato ma dai cui hai anche ricevuto tanto. A quale delle due ti senti più legato? 

Ho avuto la fortuna di giocare in sole due piazze in tutta la mia carriera, oltretutto in due grandi piazze. La prima Milano, l’Olimpia, la squadra in cui sono nato cestisticamente, in cui ho giocato da quando avevo 8 anni fino al mio esordio in prima squadra a 16 e poi per 7 anni da professionista. Sono approdato in una grande squadra, fatta da grandi campioni che mi hanno insegnato tanto, diventandone poi in seguito anche capitano. Sono quindi molto legato all’Olimpia. Ma non sono mene legato alla Benetton Treviso, la squadra in cui ho finito la mia carriera dopo ben 11 stagioni e dove forse ho giocato i miei anni più importanti. Per ciò, alla domanda alla quale delle due ti senti più legato, sinceramente non ho una risposta, sono profondamente legato ad entrambe, esprimo un profondo senso di dispiacere però nel pensare che purtroppo la Treviso in cui ho giocato non esiste più.

 

A soli 16 anni debutti tra i professionisti nella squadra della tua città, al fianco di campioni del calibro di Meneghin e D’Antoni e sotto la guida di Dan Peterson. Ti consideri un predestinato?

È vero, a 16 anni giocavo già con fenomeni come Meneghin, D’Antoni, che è sempre stato il mio idolo, e un grande allenatore come Dan Peterson. Ma non c’erano solo loro, penso anche a Bob McAdoo, Roberto Premier e tutti gli aaltri. Tutti grandi campioni che avevano fatto grande Milano e soprattutto mi hanno dato un imprinting che mi è servito poi per tutta la mia carriera. La loro mentalità vincente mi è stata trasmessa tramite gli allenamenti giornalieri fatti insieme, perché, pur avendo vinto tanto, non avevano placato la loro sete di vittorie. Così, quelle stagioni con l’Olimpia sono diventate delle annate gloriose.

Non mi considero un predestinato, mi considero un giocatore che ha lavorato tanto per arrivare a realizzare quello che era un sogno, arrivare cioè a giocare in serie A per la squadra in cui ho iniziato la mia carriera. La predestinazione secondo me non esiste, quantomeno se non accompagnata da un duro lavoro quotidiano in palestra.

 

Riccardo PittisSei passato alla storia per la forza di volontà con la quale sei riuscito a rispondere alle difficoltà colpo su colpo, facendo spesso di necessità virtù. Emblematica la caparbietà con la quale, ormai a carriera inoltrata, sei riuscito a rivoluzionare la tua tecnica di tiro, adattandoti a tirare con la mano sinistra. Dove hai trovato la forza e la motivazione per fare quello che hai fatto?

Quando avevo trent’anni ho avuto un problema ai tendini della mano destra che mi ha costretto ad imparare a tirare con la mano sinistra, una cosa che se me l’avessero detta anche un minuto prima dell’infortunio, non avrei mai pensato potesse realizzarsi. Invece, ancora una volta, la voglia, la passione, la tenacia e anche il mio DNA da combattente hanno fatto sì che riuscissi a fare una cosa tanto straordinaria.

La forza e la motivazione le trovi dentro di te, e sono le uniche molle a disposizione che ti possono spingere a realizzare cose apparentemente impossibili. Quella motivazione l’ho avuta sempre dentro, basti pensare al record abbastanza bizzarro che detengo, di aver giocato per 20 anni da professionista senza aver mai saltato una partita, emblematico della mia voglia di non mollare mai. Così, quando ho avuto questo problema e mi sono trovato davanti a due potenziali strade: smettere di giocare o trovare una soluzione, ho contemplato esclusivamente la seconda ipotesi.    

 

Nel 2004 a 35 anni, dopo 20 stagioni di A1, 685 presenze, 6.637 punti, annunci il tuo ritiro. È tuo “Turning Point” di Riccardo Pittis, un punto di svolta sportivo ed extrasportivo in cui sembri aver smarrito la bussola. Come sei riuscito a ritrovarti e a capire quale fosse la nuova strada da percorrere dopo il basket?

Quando decisi di annunciare il mio ritiro effettivamente attraversai un periodo complicato. Il momento del ritiro è forse il momento più difficile per qualsiasi atleta, è un punto di svolta sportivo ma soprattutto extra-sportivo in cui ti trovi ad affrontare un mondo che non conosci, dopo aver vissuto sempre in un mondo che amo definire “delle palline colorate”, perché nella vita da sportivo professionista è tutto molto bello, le emozioni sono tante e ti pagano per divertirti. Decisamente diverso dal mondo normale, che devi affrontare senza armi in tuo possesso perché è tutto nuovo. Ho ritrovato la strada perché l’ho smarrita spesso in quel periodo, ho battuto tante vie, ho cercato la mia commettendo tanti errori.

Certo, avrei preferito evitare tanti sbagli, ma ho sempre pensato che l’unico modo che abbiamo per imparare è avere la possibilità di sbagliare. Quindi, dopo i tanti passi falsi, sono finalmente riuscito a trovare la mia strada e, dopo tanti anni da professionista in cui non potevo certo chiamare lavoro quello che facevo, ho ritrovato un’altra professione che ancora oggi non riesco a reputare un lavoro. Per questo mi ritengo un uomo molto fortunato. 

 

Riccardo Pittis è a tutti gli effetti un professionista certificato della crescita personale. Che cosa fa nello specifico un Mental Coach?

Dopo tante esperienze andate male ho trovato me stesso diventando Mental Coach. Lo sono diventato soprattutto perché volevo dare una spiegazione a quella che era stata la mia carriera sportiva e a cosa mi aveva permesso di ottenere determinati risultati. Inoltre, volevo capire come sfruttare al meglio il potenziale della mente. Ho sempre pensato che la differenza tra un buon giocatore ed un campione sta proprio nell’approccio mentale. Per questo motivo, un Mental Coach aiuta le persone a tirare fuori il proprio potenziale e trovare quelle forze nascoste e inconsce, che molto spesso non sanno di avere, un po’ come nel mio caso con l’utilizzo della mano sinistra, in modo tale che ognuno possa raggiungere i propri obiettivi sia sul piano personale che professionale.

 

a Caccia di... soft skillCon l’amica Maurizia Cacciatori e altre leggende dello sport italiano, hai contribuito a dare vita al progetto “a Caccia di… soft skills”. Che valore aggiunto può portare un ex campione dello sport all’interno di un’impresa? E soprattutto, perché la necessità di focalizzare l’attenzione sulle soft skills?

Da quando faccio questa professione una delle cose che cerco di portare nelle aziende con cui lavoro è proprio il concetto di similarità tra sport e azienda. Essi sembrano apparentemente due mondi lontani e diversi ma invece hanno tantissimi punti in comune, soprattutto perché hanno un elemento fondamentale che li avvicina, ossia il fattore umano. Quando una o più persone interagiscono tra di loro per ottenere un obiettivo, si sviluppano quelle dinamiche di squadra che sono proprie sia di un team sportivo sia di un gruppo di lavoro. Per questo motivo l’esperienza sportiva può aiutare molto le aziende.

Tante situazioni che noi atleti abbiamo già sperimentato e vissuto sul campo, possono infatti essere trasportate nel quotidiano lavorativo. Questo è il motivo per cui per un’azienda è importante avere un punto di vista esterno rispetto alla loro specifica attività.

Ed è proprio da qui che è nata l’idea con Maurizia Cacciatori, Massimiliano Rosolino, Josefa Idem e Giusy Versace di mettere a disposizione un prodotto formativo che focalizzasse l’attenzione sulle Soft Skills, il lavoro che non è solo tecnica ma è anche e soprattutto mentalità, leadership, team building, team playing etc.

Tutti concetti che possono essere presi dall’esperienza sportiva e tradotti nel quotidiano lavorativo dei collaboratori di un’azienda.